Viste le metodologie di affiliazione alle varie coschette artistiche che condizionano la matrix culturale italiana, esser costretti a fare l’artista “indipendente” è faccenda molto dura e che rende oltremodo, ma giustamente, antipatici. Ciononostante, non mancano le soddisfazioni: per esempio la milanese “Radio Popolare” ha inserito una mia poesia nella scaletta dell’ultima trasmissione di “Percorsi PerVersi”, quella di Domenica 2 Febbraio. Il che significa che a scrivere tanto cane non sono…
La trasmissione in questione tratta principalmente il giro dei “poetry slam”, ambiente che in tutta onestà non m’ha mai attratto, ma che potrà interessare più d’uno/a tra coloro che leggeranno questo post. Ma per chi fosse eventualmente mio fan sfegatato, convinto che la mia sia l’unica voce ascoltabile nel panorama poetico italiano, faccio presente che la mia lirica si trova al minuto 27 e 30 secondi di questa puntata di “Percorsi PerVersi”.
Il link è qui di seguito; buon ascolto e ricordate il mio sito: https://seautosprod.wixsite.com/seautos
Il gruppo “Anime con Vista” è specializzato nella realizzazione di antologie: ospitando materiale di discreta qualità, già l’anno scorso partecipai ad una di esse.
Il mese scorso mandai un testo per l’antologia “Radicula”; neanche a farlo apposta in questi giorni sto lavorando alla stampa della nuova raccolta “Immanenze e persistenze” e una delle sue poesie vi si prestava benissimo. Lo smilzo volumetto (26 pagine) è uscito il mese scorso e, come è d’obbligo oggi, si trova su Amazon al link qui di seguito:
https://www.amazon.it/gp/product/B0DVR74X39?ref_=dbs_m_mng_rwt_calw_tpbk_10&storeType=ebooks
Di seguito i link per “Escamontage”, la sigla che mi ha pubblicato l’ultima videointervista in ordine di tempo:
https://youtu.be/6MSO5HkOz34?si=jN62fpYP8cZjFFN6
https://www.youtube.com/@escamontage https://escamontage.wordpress.com/
LUCIA TRIOLO È UNA POETESSA E CRITICA SICILIANA MOLTO CAPACE IN ENTRAMBI I CAMPI.
IN CONTATTO CON ME DA ALCUNI MESI, HA ACCOLTO FAVOREVOLMENTE LA MIA ULTIMA FATICA.
Lucia Triolo legge Mappe Polesane di Alberto Rizzi
“Una delle definizioni che mi piace dare della Poesia, dice Alberto Rizzi, é quella di uno strumento col quale esplorare la realtà: uno strumento che si basa sul suono delle parole, oltre che sulla ricerca di precisione che il loro significato permette” (Mappe polesane. Youcanprint 2021, p. 3). La sensibilità ai luoghi in un qualunque habitat, è una forma di presenza al mondo e di partecipazione attiva a quel che vi accade. In altre parole, è un essere contemporanei al proprio tempo e a se stessi, tenendo tra le mani la storia e la cronaca che ci riguardano. La poesia può rivelarsi un ottimo strumento anche in tal senso.
Mappe polesane di Alberto Rizzi è un bel testo, che si situa esattamente nel luogo in cui deve essere, in uno spazio cioè dell’anima. Di un’anima abitatrice del corpo dell’autore e dei luoghi che egli attraversa. Non lo troveremo mai a passare distrattamente e quasi per caso nel paesaggio che lo colpisce e che disegna con efficaci tratti di penna. Non vi è, in questo testo, un “altrove”, ma ogni punto è un “qui”, un punto della terra in cui viene messo un piede, viene lasciata un’impronta umana.
Sebbene Rizzi non ne parli, il percorso che disegna si può leggere, a mio parere, in linea di interiore ed intensa continuità con il senso specifico che nel suo Derive senza approdi (autopubblicato tramite una nota piattaforma di stampa online) attribuisce alla dimensione del “viaggio. “… se la vita é viaggio e l'arte riflette la vita, alla fine ogni opera d'arte può essere assimilata a un viaggio. Ed è fatto assodato che scopo del viaggio non è raggiungere la meta fissata, ma il viaggio in sé”.
Il viaggio quindi “…è prima di tutto uno stato mentale, che porta a vagare per un luogo senza una meta precisa: ma seguendo gli eventi e gli stimoli che lo spostarsi suggerisce di volta in volta alle nostre <<parti sottili>>” (da Derive senza approdi, cit. :“Due parole dall’autore”, p.3).
Certo, disegnare una mappa percorrendola è una forma un po’ angolata di viaggio: ciò non toglie però nulla al suo carattere di “stato mentale” vagante, anzi, in certo senso lo potenzia perché lo colloca in un suo continuo, non peregrino, peregrinare (mi si perdoni il gioco di parole). Così il “solo perché tu sai l’andare” di Derive senza approdi (cit. p.7) in Mappe polesane, diventa “Quando che qui ti fermi /le spalle alla pianura/ e il fronte a questo basso bassomare/ unisci anche l'aria che respiri /fredda/ al fuoco che hai didentro/ a surrogare il sole” (cit. p. 47).
Entrano ora in azione, vorrei dire, le “parti sottili” aperte a recepire i suggerimenti del territorio. E non si pensi che si tratti di grandi agglomerati urbani, delle reti intrappolanti di anonimi vissuti cittadini. Al contrario, come suggerito dallo stesso titolo, lo sguardo è volto ad accorgersi e entrare dentro ciò che di solito passa inosservato: la Campagna tra S. Pietro Polesine e S. Maria in Valle”, il Mulino “del Pizzon” presso Fratta Polesine, il Grande albero solitario a Grompo di Lusia, la Ex fonderia tra la frazione di Cavanella Po (frazione di Adria) etc…
Come dicevo all’inizio, é il “qui”, lo spaccato del “luogo” a stagliarsi alla ribalta da protagonista. Il protagonismo dell’uomo non scompare mai dallo spaccato, ma si affianca, gareggia e talvolta cede il passo a quello del paesaggio e della natura. Vorrei dire: vive e si forma dentro i luoghi. Non li trascende anzi è come se da loro si lasciasse suggerire la parola.
“Da pietra forte nasce un cavo pesante
solco più che ascella
un inizio di via in percorsa da tempo
sì che l'acqua vi passa
ora
di ricordi deserta
e solo specchio a volande
in qualche giorno felice
quando l'uomo si siede e
malgrado i rumori vili della sua vita
commosso resta in pace col sole” (p.10)
Rari i personaggi e sempre in relazione alla loro funzione nel paesaggio: il vecchietto, il barcaiolo, il pescatore, pochi altri; e si tratta di personaggi più suggeriti che reali. In questo è possibile anche tratteggiare la distanza tra la poesia di Mappe Polesane e la paeseologia, ad es. di un Franco Armini. A differenza da quest’ultimo, per Rizzi non si tratta di visitare il “paese”. Piccolo o grande che sia, abitato o disabitato il paese ha sempre per protagonista l’uomo. In Mappe polesane è il territorio, nudo o ancora vissuto, a far storia e storia umana. Protagonista ne è “…l’ambiente sia come paesaggio naturale che antropico” (Mappe…, cit. p.4).
Quel che così si snoda davanti alla nostra attenzione è un guardare i luoghi, per così dire con i loro occhi, così cioè come loro chiedono di essere guardati. Ma è anche il guardare degli occhi del territorio ad essere volto su di te. I luoghi, non consentono di passare inosservati, interpellano chi li osserva, pronti se del caso a farti sentire in colpa, quando e se l’agire dell’uomo ne ha cambiato l’armonia e da “mondo sacro” (Mappe…p. 17) in grado di renderti “finalmente immenso” (Mappe…p. 19) li ha magari trasformati in “fogna dove tutto si raggruma/ e frena la speranza” (Mappe…, p. 41).
Anche il linguaggio e la punteggiatura non scontati, tentano di forzare all’estremo, a mio avviso, i margini dell’esperimento narrativo, tesi come sono a dar vita e capacità espressiva al silenzio dell’ambiente che abbraccia sommessamente chi lo abita e a cantarne la passione. Non c’è passività, dunque, nei luoghi; c’è semmai sofferenza per tutte le volte che la loro capacità di accoglienza è stata tradita, una sofferenza che può anche irritualmente consentire al poeta amara ironia: “uomini/spesso scarsi di pensiero / (com’è normale per gente di Rovigo)” (Mappe… p. 21 e cfr, anche pp. 22, 23).
La terra ha sempre il volto di coloro che l’hanno abitata. Se tale, è terra di storie umane. È terra di amore. Questo il messaggio di Mappe Polesane. È il messaggio di un pensiero che tocca per la tangente, come si vede, il tema ecologico. Ma anche questo contatto, nel momento attuale di lotta per la salvaguardia dell’ambiente, credo possa essere portatore di frutto.
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LEONELLO RABATTI È CURATORE DI UN FONDO LETTERARIO CHE RACCOGLIE LA TESTIMONIANZA DI PETER RUSSELL.
MORTO NELL’OBLIO CHE GLI ITALIANI RISERVANO A CHI FA CULTURA SERIAMENTE, RUSSELL FU – NEGLI ULTIMI DECENNI DEL SECOLO SCORSO – UNO DEGLI ULTIMI DISCEPOLI DI EZRA POUND QUI IN ITALIA.
FUI IN CORRISPONDENZA CON LUI – PER RECIPROCA STIMA – FINCHÈ LA SALUTE GLIELO PERMISE.
LEONELLO È PERSONA CHE HA SEGUITO ATTENTAMENTE IL MIO PERCORSO POETICO, MALGRADO LA DISTANZA (SI TROVA IN TOSCANA A PIAN DI SCÒ), DA DIVERSI ANNI.
POCO PRIMA DELLA FINE DEL 2021 MI HA INVIATO UNA RECENSIONE DI “MAPPE POLESANE”.
Ho finalmente letto con calma le tue "Mappe polesane", approfittando del periodo vacanziero.
Rispetto ai lavori precedenti, meno frequenti in alcuni componimenti sono gli inserti neologistici che contraddistinguono la cadenza della tua poesia. In taluni casi la rarefazione di questo elemento tuo peculiare, sul quale mi ero soffermato nelle nostre precedenti comunicazioni, isolandosi maggiormente nei testi, per contrasto, è come se ancor più accentuasse la sottolineatura semantica, oltre a rimarcare la velocizzazione del ritmo strofico, lungo l'orizzontalità descrittiva di certi versi.
Stavolta la lettura mi ha restituito la varietà e ricchezza dei toni e la molteplicità dei registri linguistici che vengono adottati. Talvolta in filigrana, talaltra in piena evidenza, si legge l'impegno civile ed il tono denunciatario; in alcuni casi lacerti, schegge di vere e proprie invettive: i "subumani"; i "decerebrati"; gli uomini "spesso scarsi di pensieri", oppure "bencòrti di pensieri"; "sul grigiore esibito delle menti/che lastricano questo stagno-città"; "sbrodar d'asfalto/della città sul verde", e vari altri luoghi testuali.
Emblematico in questo senso è Paesaggio appena extraurbano, nel quale l'incipit è di tono pienamente prosastico, punteggiato solo da rare inversioni, fino a quel "nòstraménte", neologismo che si oppone al sopravvento del cuore umano, unione di aggettivo possessivo e sostantivo, a formare un nome composto, quasi ad isolare l'istinto predatorio e, appunto, possessivo, della nostra mente razionale.
E troviamo altri neologismi a forte sottolineatura semantica, come "Uomini alfinsàvi" e "gioia 'nfame", veri e propri specimen di lessico alto e basso-dialettale. Sempre nella stessa poesia, l'andamento prosastico è spesso bilanciato da un ritmo in grado di addensarsi metricamente in endecasillabi: "che scordaro il giusto metro al fare"; oppure, ancor più significativamente, ma con inclinazione lessicale verso il basso: "ad impestare ancora la Natura/spezzar le reni a un equilibrio sacro/per il trionfo della stupidità".
Altri componimenti sarebbero suscettibili di un'analisi simile, che metterebbe in evidenza questa ricchezza tonale, lessicale e neologistica. Come, ad esempio, in Presunzione d'innocenza, dove l'elemento petrarchesco si coniuga con l'aulicità medievaleggiante e latineggiante (notevole l'inserto verbale "recumbendo"), ma anche ottocentesca, assieme al parlato basso e popolare ("sputati rifiuti"; "colpi di tosse"), quando non propriamente dialettale ("lassame spiega' "), in una sorta di pastiche lessicale in grado di mantenere la sua intensità lirica di fondo.
Molto altro si potrebbe aggiungere su certe "traiettorie visive" paesaggistiche, mappe a cui, attraverso lo sguardo, l'impressione agisce all'interno e accende la sensibilità poetica, in grado di interpretare il disegno sensoriale percepito dagli occhi.
“I PESCI NEL BARILE” – Vicenza, Edizioni Saecula 2012
Finora il romanzo non ha avuto praticamente recensioni: solo alcuni commenti in rete durante il 2013, che – per quanto positivi - non ho ritenuto significativo riportare qui. Mi furono fatte, però, due interviste che copio volentieri.
La prima è stata curata da Roberto Guerra, ferrarese, che si occupava nel 2017 di arte a vari livelli; e che era legato a certe frange culturali rifacentisi in qualche modo al Futurismo e – ahimé – al Transumanesimo. I due rimandi indicati spiegano lo stile delle domande fatte.
Nella seconda, molto più recente, le domande sono state formulate da Gabriella Gavioli.
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1) - INTERVISTA CREDIBILE ad ALBERTO RIZZI sul suo primo romanzo: “I pesci nel barile” (Vicenza 2012, Ed. Saecula)
LETTORE INTELLIGENTE – Questo è il tuo primo lavoro in prosa, ma hai più di vent’anni di attività in campo poetico a un livello assolutamente professionale; visto che hai “piazzato” le tue raccolte un po’ in tutto il mondo e se - d’altro canto - il tuo stare fuori dalle conventicole autoreferenziali di quell’ambiente, ti ha precluso finora la possibilità di ricevere riconoscimenti ufficiali: vuoi dirmi quali sono le tue radici, in entrambi questi ambiti?
ALBERTO RIZZI – Il percorso poetico credo sia un po’ atipico: sono partito infatti ispirandomi ai parolieri del rock anglo-americano negli Anni ’70 del secolo scorso. Sono partito da Anderson, Gabriel, Hammill, Sinfield di qua dall’Oceano, da Morrison, Dylan e Cohen al di là; in questo modo dovrei aver assorbito gli influssi di molti autori moderni, mi vengono in mente innanzitutto Pound, Elliot, Yeats. Solo negli anni seguenti iniziai a interessarmi di poeti tout-court: Luzi, Zanzotto, Villa, Bonnefoy, Heaney. Non so però se tutto questo si senta ancora, a tanti anni di distanza.
Diverso il discorso per la prosa, campo nel quale non mi sono ancora posto il problema. Non voglio dire con ciò di essere originale; a metà degli Anni ’90 collaborai al progetto “Luther Blissett”, tanto che poi sono diventato un personaggio fisso in quasi tutti i loro romanzi: è perciò possibile che chi leggerà “I pesci…”, trovi assonanze coi romanzi brevi dei singoli “Wu Ming”.
Però non mi ispiro al modo di scrivere di qualcuno in particolare.
L.I. – Qual è lo scopo dell’aver scritto questo romanzo breve?
A.R. – E’, appunto, un romanzo e non un saggio: non c’è stata quindi da parte mia nessuna voglia di fare analisi storica del fenomeno dell’Autonomia Operaia.
Con questa storia – totalmente inventata, ma strutturalmente credibile – vorrei far riflettere il lettore su tre cose: su come sia facile manipolare e strumentalizzare gli individui, facendo loro credere di stare lavorando per cambiare il mondo; su come questo sia ancora più facile, se gli individui in questione – così com’era allora una grossa parte della base dell’Autonomia - hanno scarse capacità critiche e non si rendono conto, in primo luogo, della differenza che corre fra teoria e applicazione di questa nella pratica. Infine che questa mancanza è dovuta, a monte, alla carenza nelle guide fondamentale per la formazione di un individuo, a cominciare dalla presenza responsabilizzante della famiglia.
L.I. – Però, invece di scrivere un romanzo psicologico, un romanzo di formazione, sei andato a ricollegarti a una realtà storica recente e tipicamente italiana: pensi che ci sia il rischio di ricadere in errori simili?
A.R. – Premesso che, secondo me, la componente “di formazione” nelle vicende che attraversa il protagonista, c’è, di sicuro imbonitori che ti usano per i propri fini, convincendoti che stai lavorando per la tua vita, se ne troveranno sempre.
Ma per riallacciare questa tua domanda al periodo attuale, trovo drammatico come oggi* gli Italiani stiano ripetendo un percorso già compiuto con esiti disastrosi, senza accorgersene e senza cambiare una virgola a livello di sostanza.
Settant’anni fa c’era una guerra guerreggiata; per venirne fuori salvando capra e cavoli, il sovrano silurò il demagogo di turno (idolatrato dalle folle) e lo sostituì con un tecnico, nella fattispecie un generale. Il quale disse agli Italiani, che credevano fosse finita lì: “La guerra continua”.
Adesso siamo nel mezzo di una guerra economica; per venir fuori secondo i dettami delle lobby economiche transnazionali, il sovrano ha silurato il demagogo di turno (idolatrato dalle folle); soltanto non è scappato da Roma, perché non corre pericolo fisico... E lo ha sostituito con un tecnico, nella fattispecie un economista; il quale ha detto agli Italiani, che credevano fosse finita lì: “La crisi continua”. Allucinante, no?
L.I. – E pensi di essere riuscito nello scopo?
A.R. – Compra il libro (c’è l’ISBN, quindi dovrebbe essere ordinabile ovunque; e poi è in Internet, con Amazon, E-Bay, il sito della casa editrice, ecc.) e dimmelo tu…
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- 2017… (Nota dell’autore)
2) - Intervista di Gabriella Gavioli
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Da dove è nata l’ispirazione per questo libro? Letture, incontri, idee che hanno portato alla sua genesi, in maniera diretta o indiretta.
- La necessità di portare agli altri una testimonianza delle mie esperienze di quel periodo storico politico, che vissi direttamente. Con le riflessioni che, nel corso degli anni, me ne sono venute.
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Cosa ti ha convinto che l’idea era buona e funzionava?
- La capacità di autovalutare quel che faccio in campo artistico: il romanzo ebbe tre differenti stesure, prima di arrivare a quella da voi pubblicata.
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Se dovessi sintetizzare in poche righe il messaggio del tuo libro, quale sarebbe?
- Stare attenti che la realtà non è quella che ci viene raccontata dalla maggior parte degli organi “di informazione”. Stare attenti a non farsi manovrare “per superficialità” – cioè sull’onda acritica del nostro entusiasmo – da altre persone, mosse da scopi molto meno nobili dei nostri.
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Chi è il lettore ideale del tuo libro? Prova a descrivercelo.
- Una persona intelligente, sensibile e curiosa. Tutto qui. Non ci vedo fasce di età o sociali particolari; con tutto ciò che faccio – non solo in campo letterario – ho sempre cercato di arrivare a questo genere di fruitore. Certo che le giovani generazioni vorrei che fossero privilegiate, nella lettura e nell’ascolto di ciò che creo.
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Se il tuo libro fosse una musica, quale sarebbe? Quale colonna sonora riterresti adatta al tuo testo?
- Un mix fra il rock della seconda metà degli Anni ’70 e i cantautori di quel periodo. Con una spruzzata di punk e di raggae qui e là.
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Che profumo assoceresti al tuo libro?
- Cannabis...
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A quale regista venderesti i diritti della tua opera d’ingegno?
- Ora come ora, se dovessi pensare a un regista per “I pesci nel barile”, ti direi il Matteo Rovere di “Veloce come il vento”; mentre pensando al romanzo nuovo (“Uomini non di questo tempo”), ci vedrei bene il primo Garrone (“L’imbalsamatore” e “Primo amore”).
Sono registi che sanno gestire i necessari cali di tensione in uno script, senza cadere nel macchiettistico. La maggior parte dei registi (non solo di commedie, purtroppo: basta vedere certi sceneggiati televisivi, che dovrebbero esser thriller) inseriscono delle comparsate, che vogliono rassicurare il pubblico, dicendo “noi italiani siamo un popolo di coglioni, ma tanto simpatici, vero?”. Questo è il messaggio che si vuole inculcare alla maggior parte degli italiani, anche se peraltro non è che ce ne sia tanto bisogno, per mantenerli al livello di creduloneria nel quale sono: ma è chiaro che non ha niente a che vedere col messaggio che voglio trasmettere io.
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Che colore potrebbe evocare il tuo libro?
- Rosso scuro.
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Quale cibo potresti associargli?
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Tutto il cibo “mangiato in strada nelle ore sbagliate”, come cantava De Andrè; e la pizza con una bella birra media, naturalmente.
L’UNICA RECENSIONE UFFICIALE A “DERIVE SENZA APPRODI” FU SCRITTA DA ANTONIO SPAGNUOLO PER IL SUO BLOG, A METÀ DEL 2020 E QUI SOTTO LA RIPORTO.
Antonio Spagnuolo è scrittore e critico napoletano (pare, per inciso, che a Napoli e dintorni la mia scrittura poetica goda di un certo “successo di critica”), che anche in altre occasioni parlò bene di me.
Altri “addetti ai lavori” paragonarono per certi versi la mia scrittura alla sua: per certe scelte lessicali che, a loro dire, la facevano afferire a un generico “barocco”. Termine usato, per entrambi gli autori, non in senso dispregiativo come alle volte accade, con quegli artisti del ‘600 e del ‘700 che caddero nel “tanto fumo e poco arrosto”.
A livello di scelte e gusti personali nelle ricerche del Barocco non mi riconobbi in passato, né mi riconosco ora, pur rispettando certi suoi campioni del XVII Secolo; ma non il Marini, guarda caso.
Visto che questo accostamento era orientato al positivo, lascio però l’ultima parola sull’argomento a chi mi legge.
"Sembra una sentenza da approfondire quella che l’autore scrive in antefatto dichiarando: “è fatto assodato che scopo del viaggio non è raggiungere la meta fissata, ma il viaggio in sé”. Raggiungere una meta potrebbe essere allora soltanto la scintilla provocatrice dello spostamento corporale, mentre il tragitto da percorrere, sia breve, sia lungo, è il vero attraversare nel tempo e nello spazio, alla scoperta dei motivi elementari di un iter.
La scrittura che contraddistingue queste pagine è tutta intessuta, con arguzia e lodevole cultura, da un sussulto continuo che vertiginosamente trasporta da un luogo all’altro con fraseggi da interpretare e centellinare… “perciò che d’ognipàrte che tu mente volgi/ sguardo/ cuore/ ecco che dentro stai/ meditabondo/ parte di un viaggio/ che senso dona o toglie/ ad ogni vita altrui/ e spesso/ (senza che n’abbia intendimento tu/ o anche volontà) / pure tua pròpriavìta tua, di vita.”
Il passo che il poeta traccia nel suo andare ha percorsi variabili e varianti, “seguendo marciapiedi crepati a volte come da afa zolle”, o “a lo scrosciar di pioggia che scartavetra la vista”, anche quando “il segno d’inchiostro sopra al foglio vale più del passo impresso sul fango del sentiero amico”, o se “il cuore cavalca ogni deriva forzando il battito delle vene col suo volere sacro che travalica gli approdi”.
Le immagini si concretizzano in una poesia magica, polisemica, interrotta da stravaganti fiammeggiamenti che nel turbine nascondono il concerto di visioni ed emozioni. Tutto lo spartito segna tappe chiaramente fulminanti, nella compattezza che cerca di cristallizzare l’alternarsi delle misure metriche, caratteristiche di questa raccolta."
NELLA PAGINA DELLA LETTERATURA HO INSERITO DUE RACCOLTE COLLEGATE: "POESIE INCITANTI ALL'ODIO SOCIALE" E "ACHTUNG BANDITEN - POESIE PER LE NUOVE RESISTENZE"
Stranamente, mentre “Poesie incitanti all’odio sociale” non ebbe alcuna recensione, malgrado sia stata pubblicata in forma ufficiale, “Achtung Banditen – Poesie per le Nuove Resistenze” attirò parecchia attenzione, almeno considerando che si tratta di un testo autopubblicato.
Qui di seguito i cinque testi relativi.
MICHELE PAOLETTI, PER LA SUA PAGINA FB "COME FOSSE GIOVEDI'"
“Resistere è lasciarsi andare/è oltreandare, altrove”: questo è il messaggio che Alberto Rizzi lascia al lettore con la raccolta “Achtung Banditen – Poesie per le Nuove Resistenze”, che sarà (auto)pubblicata fra pochi mesi; e attraverso versi amari costruiti col suo inconfondibile stile sonoro, linguistico e aspramente critico. Nell’attuale contesto storico-sociale, tuttavia, gli strumenti per costruire un futuro e ri-costruirsi sono ben pochi e poche le speranze di successo.
La consapevolezza passa attraverso l’abbandono di ogni zavorra; anche quella che sia costituita da quei propri simili che rifiutano sensibilità, bellezza e credono ciecamente a un’informazione di regime, mantenendolo in vita col loro consenso: quelli che l’autore chiama “i subumani”: per farsi “scheggia che in un luogo si conficca / e genera cancrena di bellezza”; scheggia di quello specchio nemico, di quel vetro che riflette “meglio chi non passa più”.
Il fine è quello di poter (ri)costruire ambiti sociali che mettano al primo posto la qualità della vita, fuori dall’attuale società: talmente degradata, da renderne impossibile un cambiamento significativo.
MAURO FERRARI "PER LA RESISTENZA DI ALBERTO RIZZI"
Quando si arriva alla poesia di Alberto Rizzi, il che, stante la situazione della poesia italica accade quasi sempre per caso, si ha l’impressione di essere violentemente catapultati in un altro mondo: un mondo di valori umani, senza dubbio, ché Rizzi da anni produce poesia vera e onesta in totale isolamento culturale, ed è poesia che riflette una visione antagonista da qualunque angolo la si consideri; ma anche un mondo poetico in sé, perché questa poesia ha una corrispondente originalità di stile, raggiunta con letture, riflessioni personali, e soprattutto scelte coraggiose ai limiti dell’idiosincrasia ma che creano un impasto espressivo del tutto originale e personalissimo.
Avendo pubblicato, agli albori di "Puntoacapo", uno splendido "Poesie incitanti all’odio sociale" (2008), avendo seguito un po’ tutta la variegata e sparsa produzione del poeta trentino, mi trovo adesso per le mani l’autoprodotto "Achtung banditen (Poesie per le nuove resistenze)", che Rizzi definisce il seguito ideale della citata raccolta: mi pare evidente che ci si trovi di fronte a uno dei non comuni casi di poeta non solo sottovalutato, ma che possiede anche virtù letterarie che potrebbero innervare non poco la poesia italiana così ovviamente afflitta da due mali in stadio terminale: l’iperletterarietà di tanti poeti laureati e il l’ipoletterarietà del minimalismo – nascendo la prima non dalle (indispensabili) competenze che permettono una matura consapevolezza artistica, ma da una visione asfittica e conchiusa del mestiere di poeta, avulsa dalla vita, e nascendo la seconda dalla fallace idea che chiunque possa fare poesia partendo dall’onestà di un racconto in versi, meglio se “leggibile” – ipopoesia, insomma, il contrario di ciò che hanno fatto i grandi.
Ebbene, Rizzi scrive del nostro mondo, da un punto di vista “militante” (parola dimenticata), che non tutti magari possono condividere, ma che almeno dice, afferma, grida a volte, assumendosi responsabilità umane, civile e poetiche, cioè culturali, visto che poi è di cultura (non-cultura) che sta morendo il nostro Paese.
Il punto di vista è quello di una contestazione globale che parte da un’invettiva che coinvolge non solo il Potere (quell’ectoplasma contro cui tutti sono pronti a scagliarsi), ma le sue manifestazioni concrete.
Radici di cespugli
che foste e più non siete
io v’estirpo
con dólcegèsto privo d’ogni odio
Così s’avrà da fare
quando saremo al sangue
(p. 9)
così si apre la raccolta, con una poesia che è tutta proiettata verso un futuro redento in cui “verranno bambini a porci domande” (p. 10).
Rizzi attacca direttamente sia di qua che di là dal muro perché la sua è una critica che non risparmia i cosiddetti poteri forti (la politica, le banche, le istituzioni), il “popolo” inteso nell’accezione più negativa (“Povera gente rincoglionita e opaca”, p. 11), quella massa che da quando esiste la democrazia è stata vista da destra e da sinistra, con tutti i distinguo, come pericolosa, ipocrita e/o inerte (dallo Shakespeare di Coriolanus ad Alfieri a Leopardi, da Tocqueville a Carlyle, da Musil a Eliot), fatta salva la quota di sognatori più o meno pratici che lì vedevano le risorse sane per un possibile risveglio (Marx e più di lui certo pensiero progressista non troppo allineato: Morris, Orwell, Pasolini...). Rizzi sa bene quanto il “popolo” sia a sua volta vittima, ma una vittima ben disposta a farsi addomesticare (“’st’infelici li compri sempre col prosciutto”, p. 12) di modo che resta solo una sparuta minoranza di non omologati (“la minoranza sana di una qualùnquecittà”, p. 39) che può portare avanti la critica e la lotta con scelte coraggiose e spietate:
Giórnoverrà
un giorno di dolore
in cui ci sveglieremo dalla commedia vile
comprenderemo nell’oscurità d’un’alba
che non si può aiutare
salvare
chi non lo vuole
Che la zavorra è zavorra
e va lasciata andare
(p. 15)
O anche:
scoprir dovrai il nervo più scoperto
il ganglio ipersensibile
il vero portatore di potere
(p. 26)
​
Paradossalmente, Rizzi afferma che la lotta non è solo giusta, ma nasce dal desiderio pietoso di resistere al male e di proteggere valori umani fondamentali: si legga con attenzione la splendida "Quasi un’introduzione, quasi un congedo" (p. 14). Ma, soprattutto, Rizzi sa che la lotta è non solo minoritaria, ma probabilmente relegata alla denuncia, al gesto esemplare ed eroico, alla testimonianza pervicace e testarda, come prova anche il tono retorico e l’atteggiamento titanico di tanta di questa invettiva: “Non cercheremo perciò oltre / di convincere d’errore il gretto subumano” (p. 22); e più oltre: “Non ne cercheremo il consenso / l’ebete plauso”.
Lo stile di Rizzi, che può sconcertare pure in epoca di post/avanguardia, è una accurata mesci danza di registro colto e iperpopolare, di dialetto e lingua, calati in una versificazione che si appoggia sul verso libero del parlato, o meglio del recitato (con enfasi, in genere), e in cui fa spesso capolino – ben nascosta dal tono frequentemente truculento – una certa dose di divertita ironia:
Te lo ripeto
e te lo ripeto ancora
​
non devi odiare
nel mentre che tu agisci
​
solo comprendere e colpire
con la serenità di un Buddha
se il tempo è distruggere
solo comprendere e donare
con la serenità di un Buddha
se il tempo è fertile a costrurre
comprendere l’avversario
comporta il rischio di farne parte
(p. 28)
​​​​
Quella di Rizzi è una poesia forte, che parte da un assunto disperato che si percepisce in ogni verso, al di sotto dell’apparente ottimismo di chi vuole comunque resistere. E, forse, questa lotta è facilmente comprensibile da ogni vero poeta quando pensa ai miseri destini della poesia (e quindi della cultura, del vivere civile e del pensarsi comunità degli animi), per cui Rizzi ci appare in tutta evidenza come una voce oggi indispensabile.
Alberto Rizzi : “Achtung banditen” – Ed. in proprio – 2018 – pagg. 48 - € 7,00 (da Antonio Spagnuolo poetry.blogspot)
Poesia civile, poesia di prima linea, poesia per le Nuove Resistenze attraverso le pagine che scorrono veloci tra versi incisi nelle metafore e nelle colorazioni dell’illusione. Ogni evento ha il suo urlo, nel rincorrere senza tregua il dubbio che la società contemporanea intesse fra intrighi politici senza vergogna o impatti culturali senza decoro.
Canto corale contro le immondizie delle leggi di mercato, contro i morsi dell’odio razziale, contro gli infingimenti di governi fatiscenti , contro le pugnalate che si incistano nelle memorie , contro l’impeccabile zavorra che ristagna nei rappresentanti di governo , contro i mancanti equilibri economici permeati sugli arrangiamenti di pochi potenti, contro l’oscurità culturale che opaca ogni parete di vetro.
Il verso, sciolto da ogni vincolo ritmico, diviene a volte martellante, proprio per la necessità del dire, e si offre nel mutamento incessante della meditazione, non certo casuale.
Alberto Rizzi: “Achtung Banditen”. Poesie per le Nuove Resistenze - autopubblicata tramite Youcanprint, 2018
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I VOLTI DIVERSI DELLA POESIA (di Stefano Vitale)
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Alberto Rizzi è un poeta certamente impegnato che non teme di prendere posizione e che, pur sapendo che la poesia non fa la “rivoluzione” non esita a collocare la sua poesia in uno spazio etico, sociale e politico ben caratterizzato. Nella sua vecchia raccolta “Poesie incitanti all’odio sociale” (Puntoacapo, 2008) Rizzi proponeva una poesia che non si accontentava della rabbia, di denunciare soprusi, di fare meditazioni sullo sfascio delle società ed arrivava anche a invocare soluzioni dirompenti, come scrive lo stesso autore nella prefazione di “Achtung banditen”.
Oggi Rizzi fa un discorso leggermente diverso. Per lui conta la presa di coscienza ed è come se avesse apparentemente rinunciato all’action directe. La cosa potrebbe essere anche avvallata dalla contraddizione tra il titolo che contiene il sottotitolo “Poesie per le Nuove Resistenze” e la dichiarazione del poeta, sempre nella sua prefazione, che forse sarebbe meglio parlare di “Resilienza” (un concetto più psicologico) che richiama “la capacità mercuriale di approfittare di ogni minima crepa del Sistema”.
Rizzi si propone come poeta vicino ai movimenti più radicali e pur restando fedele alle sue scelte politiche (ambientaliste, antisistema, ecc.) sembra non voler accettare “le scelte dell’italiano medio” che vota il meno peggio (ci mette dentro anche il governo gialloverde al potere oggi?) e che invoca “l’Uomo Nuovo”. In tal senso Rizzi, ideologicamente, critica anche la cultura “marxista” positivista che fece parte della sinistra storica. Ma questo, tutto questo è solo la facciata, la patina esterna. Che a volte può irritare, risultare inutilmente esibita, che può apparire retorica. Sotto, dietro, dappertutto ci sono invece dei versi lucidi e creativi, belli e inaspettati che rivelano un poeta più “autentico”.
Non perché banalmente ripiegato nella sua protesta, ma perché capace di cogliere situazioni, emozioni, contesti, esprimere punti di vista che vanno al di là della superficie del discorso “politico”. In più Rizzi è molto bravo a proporre un linguaggio che a me a ricordato i dettami di Gianni Celati: cogliere il poetico del linguaggio parlato. E Rizzi lo fa con una naturalezza sbalorditiva che si manifesta anche graficamente. È come se egli inventasse un linguaggio scritto nuovo che si ricollega alla parlata viva delle persone. Ma senza ammiccamenti o furbizie. La lingua scorre così come deve facendo che sì che la lettura dei testi sia già una lettura ad alta voce. Perché è ad alta voce che il messaggio deve arrivare.
In tal modo Rizzi connette i diversi volti della sua poesia: lirica e di battaglia, estatica e civile al tempo stesso, sospesa eppure materiale. Alcuni esempi: “il vecchio seduto a riva / racchiuso in un cambiamento arioso / stava spalle al mare /gli occhi alla terra fissa / come sempre, lei/… (“Prospettive”) per esprimere una situazione di partenza in attesa. La poesia si chiude ancora con versi ispirati: “Ma le mani nette nella rena / che sana le ferite / ad afferrare un futuro / creare realtà / altrove”.
Nel testo poi le invenzioni di cui dicevo: “foglie secche /mìstopolvere”… “un giorno quàsipiòggia”…il chiùderpòrta sul’appartamento vuoto”…“che vòlgespàlle al mare”. È come se le parole s’impastassero nella bocca facendo impazzire il correttore automatico, rompendo le regole, ma restando dentro al quadro della comunicazione diretta. Queste soluzioni sono presenti in tutto il libretto che ne propone anche altre. In “Dopo Nassirya” troviamo: “Povera gente rincoglionita e opaca / piange chi muore per l’altrui ‘nteresse / come fossero / quei morti / davvero morti suoi/”e in “Per lo sciopero nei trasporti a Milano, 1/2/2003” scrive “Ma non preoccupatevi / mafiosi dei palazzi alti /io qui proclamo non è rivoluzione / ‘st’infelici li compri sempre col prosciutto”. Quest’uso grafico della lingua come a star dentro ad un parlato è diffuso in tutto il libro che, come detto, non rinuncia all’invettiva, alla parola urticante, urgente, pungente.
“Actung banditen” è una sorta di poemetto organico che invita il lettore a riflessioni politiche, fatte attraverso un linguaggio che mescola i toni e i registri, che inventa, alla maniera degli Anni Settanta, un lessico diverso, alternativo. Il suo “manifesto” politico è poi racchiuso nella poesia “Delirio” dove Rizzi esordisce dicendo “Diamoci cinque anni di tempo” e invoca dei cambiamenti che, in certi passi, a me ricordano anche gli slogan che abbiamo udito da alcune fazioni politiche.
FLAVIO ALMERIGHI sul sito "ALMERIGHI.WORLDPRESS" nel Novembre 2019
Alberto Rizzi, artista oltremodo poliedrico, è un autore che si sa ben districare tra realtà e sperimentalismo. La sua bibliografia è importante, nutrita. Una di queste sue raccolte, Poesie dell’uccidere in volo, è a parer mio uno dei migliori e più importanti contributi alla poesia italiana degli ultimi anni. Anche Achtung Banditen, titolo ispirato al quasi omonimo film di Carlo Lizzani, lo è, per gli ottimi momenti di poesia che contiene, oltre che per lo spirito con cui è stato scritto.
Secondo Rizzi, compito del poeta non è soltanto la denuncia di quanto vede attorno (e di cose storte ve ne sono fin troppe), ma anche di saper indicare soluzioni e vie d’uscita. Scrive l’autore nella nota introduttiva: “C’è solo la presa di coscienza, che si è fatto ormai abbastanza per gli altri: i quali hanno tutto il diritto di morire con le loro belle fette di prosciutto sugli occhi. “Decrescita felice” o no, solo chi è disposto a rinunciare a questo modello di sviluppo e a costruirne uno nuovo, basato su autosufficienza e mutua assistenza (fra simili), avrà qualche speranza di restare a galla; soprattutto se saprà coagulare attorno a sé altre persone di pari sensibilità”.
Francamente, un ritorno alle Società di Mutuo Soccorso di cent’anni fa, tanto presenti nel nostro tessuto sociale in pianura padano veneta? Qui mi piacerebbe che l’autore scendesse dal generico e spiegasse meglio.
Restano in ogni modo un pugno di poesie, alcune ottime, degne di varie letture, oltre alle soluzioni ortografiche e sintattiche, vere e proprie innovazioni nel linguaggio, che l’autore propone.
Fossi in voi, questo libro me lo procurerei. Buona lettura.
SARA PASSANATI è una laureanda in lettere, che la scorsa settimana (la prima dell'Agosto 2023) mi ha contattato per un'intervista sull'autopubblicazione, da inserire nella sua Tesi. Questo il testo che ne è venuto fuori.
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S.P. - Tu pubblichi poesia. Trattando dei vari generi, mi sono accorta che per la produzione in versi le dinamiche sono completamente differenti da quelle della prosa. La poesia si rivolge ad una nicchia di lettori e, inoltre, è limitato il numero di case editrici che puntano a questo genere. Con i tuoi libri mi sembra che tu ti rivolga ad una nicchia di mercato.
Io sostengo che i self publisher riescano ad ottenere un buon numero di copie vendute soprattutto sfruttando queste nicchie, anche perché la concorrenza con i grandi editori non è particolarmente dura. Tu cosa ne pensi? Pensi che pubblicare narrativa piuttosto che saggistica o poesia, come nel tuo caso, possa comportare delle differenze di qualche genere?
A.R. – Sono infatti due generi che necessitano di approcci diversi; non per la stampa in sé, ma per le dinamiche di mercato che le riguardano. Per la prosa c’è un minimo di mercato anche per le case editrici minori e questo fa sì che possano rischiare con autori che ritengono di un certo valore, ma – per i più vari motivi - ignorati dai grandi nomi dell’editoria.
Per la poesia s’è creato un imbuto strettissimo tra i molti che – per quanto sembri strano in un Paese come l’Italia – sanno scriverla bene e le poche case editrici serie, cioè non a pagamento e che fanno un minimo di promozione. Questo fa sì che l’autore debba decidere se tenere il materiale nel cassetto, o trovare altre strade – in primis l’autopubblicazione – quando convinto della bontà di ciò che ha scritto.
Bisogna però capirsi: essendo la promozione la chiave di volta di qualsiasi mercato, non è vero che – specie per la poesia – chi autopubblica arrivi a un numero interessante di lettori, solo perché è entrato magari in un circuito di vendita online; il titolo inserito e lasciato lì, non lo vede nessuno. Di sicuro, visto il disprezzo che accompagna la poesia in Italia e specie a livello di grande pubblico, con un romanzo si possono avere più possibilità: tanto che so di qualche titolo autopubblicato proprio con YCP, che è stato poi acquistato e ripubblicato da case editrici di nome.
Ma a meno di non scrivere ciò che vuole il gusto sempre più in ribasso del pubblico, e contare quindi sul passaparola anche online, pure nel caso della prosa la promozione rimane sulle spalle dell’autore, con tutti i limiti del caso per quella che è la mia esperienza.
S.P. - Come mai hai deciso di autopubblicare? Ho letto che ti sei rivolto a case editrici prima di autopubblicarti. Forniscimi qualche dettaglio in più.
A.R. – Per me l’autopubblicazione è una sorta di extrema ratio, ritenendo che quanto scrivo abbia sufficiente valore per essere pubblicato: se no, non lo proporrei. Chiariamoci: sono un professionista e pretendo che chi si dice editore professionale sia potenzialmente interessato al mio lavoro. Se vogliamo fare un paragone, l’autopubblicazione sta al mercato del libro, come il volontariato sta ai servizi sociali: che dovrebbero essere forniti da chi sappiamo, ma a causa di un sistema ormai da un pezzo fuori etica, vengono tenuti in piedi solo dalla sensibilità dei singoli.
Tornando al mio lavoro, all’inizio, quando ero fuori da una logica professionale, non avevo nessun contatto con editori e dunque mi arrangiavo da solo, coi samizdat. Poi, man mano che aprendomi alla professionalità acquisivo contatti, divenne anche evidente quell’imbuto strettissimo di cui ho scritto nella risposta precedente.
Perciò la mia “politica editoriale” è divenuta: propongo a una manciata di case editrici che ritengo serie il testo che ho pronto; se nessuna accetta (per i più vari e magari giustificati motivi), o se io mi accorgo che c’è qualcosa che non va (pagamento mascherato da qualcos’altro, richiesta di editing da parte di terze persone…) e quindi rifiuto la possibilità, esauriti questi tentativi, autopubblico. Fino al 2014 continuai con i samizdat; poi scoprii le piattaforme di stampa online e mi trovai subito bene con Youcanprint.
S.P. - Hai pubblicato solo poesia o anche prosa? Cosa sapresti dirmi sulle differenze che si riscontrano nel cercare di immettere sul mercato un testo in prosa piuttosto che in poesia?
A.R. – Scrissi anche due romanzi e ho in corso la stesura di una raccolta di racconti che stilisticamente mi piace definire “gotici”. Avrei anche il canovaccio per un terzo romanzo, ma – viste le difficoltà che incontro con lo scrivere testi lunghi in prosa, rispetto alle poesie e ai racconti brevi – non so se porterò avanti la cosa.
A questa domanda, però non posso risponderti, perché i due romanzi furono pubblicati da case editrici “vere”: quindi tutto il peso della promozione e della distribuzione ricadde e tuttora ricade (i titoli sono entrambi ancora reperibili) su di loro.
Ti dico solo che mentre nel primo caso (“I pesci nel barile”, con le Ed. Saecula di Vicenza) sono soddisfatto del servizio resomi, a prescindere dal numero di copie vendute, per il secondo romanzo (“Uomini non di questo tempo”, con le Ed. Mazzanti Libri di San Donà di Piave) non lo sono per nulla: dopo una prima presentazione a Ferrara (peraltro procurata dal sottoscritto…) gli editori son spariti dal mio radar.
S.P. - Di che cosa ti occupi? Pongo questa domanda per capire se ti occupi di scrittura professionalmente parlando oppure se ti occupi di tutt’altro e reputi la scrittura un hobby. Hai mai pensato di fare della scrittura un mestiere? Quando dici di essere in attività da 30 anni, intendi dire che pubblichi da 30 anni?
A.R. – Dal 1972-73, cioè da quando decisi di occuparmi di arte, iniziando con la pittura astratta, io mi son sempre considerato un “operatore culturale”: cioè una persona che veicola messaggi attraverso varie forme artistiche.
Questo significa che, in qualsiasi circostanza mi sia trovato per procurarmi da vivere, professionalmente mi son sempre occupato di cultura e di comunicazione artistica. Il fatto che mai mi sia stato concesso di campare di questo mio lavoro, non ha per me alcuna importanza ai fini della definizione; oltretutto è una situazione abbastanza comune in Italia: ricordiamoci – per restare alla poesia – che nemmeno autori in odor di Nobel come Luzi e Zanzotto camparono esclusivamente delle copie vendute; semmai grazie all’indotto.
Nel dettaglio io iniziai a scrivere, ma in sostanza come hobby, alla fine degli Anni ’70 e ispirandomi ai parolieri e ai cantautori anglo-americani di quel periodo, anche attraverso le traduzioni di colleghi italiani, come nel caso di Cohen tradotto fedelmente da De Andrè. Dal 1991 ritenni opportuno abbandonare l’attività di astrattista (con l’esclusione della mia partecipazione al Movimento dell’Arte Postale), per una considerazione di rapporto costo-efficacia sulla possibilità di raggiungere un maggior numero di persone della poesia rispetto appunto all’arte astratta.
Da quel momento in poi la mia ricerca in campo poetico, pur rimanendo sempre un autodidatta, divenne “professionale”; anche se le altre attività in cui mi cimentai finora (appunto l’Astrattismo, la realizzazione di corti, i tentativi in ambito teatrale e fumettistico) rimangono al momento “in sonno” e quindi mi ritengo altrettanto “professionale” in tali campi, dovessi riprenderli: mai dire mai…
S.P. - Mi racconti quali sono le principali differenze fra l’esperienza dell’autopubblicazione attraverso i samizdat e quella con una piattaforma di stampa online come Youcanprint?
A.R. – Si tratta più di differenze a livello di qualità nel risultato ottenuto, che altro; almeno in considerazione che parliamo di autoproduzione di poesie e non di prose.
Il samizdat era, nell’U.R.S.S. comunista, la pubblicazione clandestina di tutti quegli scritti, politici e non, sgraditi al regime. La censura veniva aggirata attraverso la stampa per mezzo di fotocopiatrice e/o di ciclostile e l’altrettanto clandestina distribuzione da persona a persona.
Per traslato questo termine identifica in Occidente tutta quella produzione scritta “fuori mercato”, che negli U.S.A. viene conosciuta anche come “grey literature”; con il non nascosto intento di far capire come tali scritti siano, malgrado la democrazia che dovrebbe imperare da noi, emarginati: sia per i loro contenuti che per la loro mancanza di appeal commerciale, le quali cose spesso coincidono.
Allo stesso modo vengono chiamati “tazebao” (termine a sua volta cinese) quei manifesti murali a carattere sia politico che culturale, che ebbero un picco di diffusione tra gli Anni ’60 e ’70, copiando quanto accadeva appunto in Cina durante la cosiddetta “Rivoluzione Culturale”; e che qualche volta appaiono ancora ai giorni nostri.
È facile capire che un testo dattiloscritto, riportato in fotocopia (inclusa la copertina) ha una qualità molto meno curata di un testo a stampa propriamente detto; anche se questa artigianalità ha contribuito a fargli avere un suo fascino e un certo valore storico e culturale.
Al contrario, la comparsa dei servizi di stampa online ha permesso di poter confezionare un prodotto finalmente con la qualità di un qualsiasi libro di media fascia, a un prezzo assolutamente competitivo rispetto a quello che fa una tipografia propriamente detta. Una vera manna per me, essendo in grado di curare ogni passaggio della stesura di un libro: dall’impaginazione alla correzione delle bozze, dalle scelte tecniche (come corpo e carattere) alla copertina.
Ma per quanto riguarda gli altri aspetti editoriali (quelli del “dopo stampa”), nulla cambiò con questo passaggio; stante la mancanza di vera promozione delle tipografie online e la distribuzione lasciata di fatto a se stessa (ovvero alla buona volontà dell’autore), io continuai a basarmi sulla medesima trafila che caratterizzò la distribuzione dei samizdat: indirizzario, passaparola, quegli eventi nei quali – quasi sempre al di fuori delle Istituzioni – riesco a farmi coinvolgere.
S.P. - Indicami alcuni dei titoli pubblicati come samizdat e con Youcanprint.
A.R. – Avendo pubblicato più o meno 25 raccolte (e tralasciando antologie di vario tipo in Italia e all’estero, quelle uscite tutte in maniera “ufficiale”), tolti quei cinque o sei titoli usciti per case editrici indipendenti, preferisco dire che lo spartiacque si ebbe nel 2014: fino a quell’anno (con la raccolta “À la carte” del 2011) parliamo di samizdat, da lì in poi (con la raccolta “Monstra” appunto del 2014) entriamo nel “periodo YCP”.
All’interno di questa gestione dei miei testi potrei segnalare il caso particolare di : caso limite dal punto di vista delle “vendite” con una prima tiratura samizdat nel 2006, la ripubblicazione riveduta e corretta tramite YCP nel 2015 e la sua versione e-book messa in catalogo dal sito specializzato www.larecherche.it nel 2018. In queste tre forme, tra copie distribuite (118 tra vendute / scambiate / inviate a critici e riviste) e gli scaricamenti online, siamo intorno alla cifra di 600: che dal mio punto di vista ne fa un bestseller.
Forse per avere un’idea della mia produzione, conviene andare sul mio sito (https://seautosprod.wixsite.com/seautos ), dove tutti i titoli sono elencati nel relativo curriculum; e vi sto lentamente inserendo un’appropriata selezione.
S.P. - Qualche dettaglio in più sull’esperienza con Youcanprint (Non parlo ovviamente dei vincoli contrattuali o dati sensibili che non puoi comunicarmi. So come funziona la piattaforma, ho avuto modo di intervistarne alcuni responsabili). Vorrei capire com’è l’esperienza dal punto di vista dell’autore: la piattaforma ti ha seguito passo passo? Ti ha fornito tutte le informazioni necessarie? È stata disponibile ad aiutarti in ogni fase?
A.R. - Chiaramente il fatto che continui a far capo a YCP è dovuto proprio alla sua disponibilità a seguire le pubblicazioni passo passo: una manna per chi, come me, non è propriamente un esperto di informatica... Una volta, per tentare di fare un po’ di confronti prima di tutto a livello di costi, contattai anche qualche altro vettore: ma capii subito che a livello di disponibilità si era messi peggio. Perciò diciamo che “squadra che vince non si cambia”.
Bisogna anche tener presente che le mie richieste di chiarimenti sono minime, stante l’esperienza maturata nel settore; ma ritengo che giocoforza questa disponibilità non possa essere minore per i servizi che YCP offre a pagamento, di cui io non faccio uso: mancando la convenienza tra costi e risultati, trattandosi nel mio caso di raccolte poetiche, per le quali la ristrettezza del mercato non mi giustifica simili spese.
S.P. - Quali sono secondo te gli aspetti più critici per un autore self e quali invece i vantaggi dell’autopubblicazione (oltre ovviamente alla possibilità di avere un controllo a 360 gradi del testo)?
A.R. – Il vantaggio è appunto di avere il controllo complessivo di tutta l’operazione a un costo, come ho scritto sopra, assolutamente competitivo rispetto a quello di una tipografia ordinaria; che non è detto che poi sia in grado di seguire tutti i passaggi con un occhio al marketing. Se la qualità del prodotto finito è di solito minore, il rapporto fra i costi e la completezza del servizio, giustificano a mio parere la scelta.
L’aspetto critico riguarda come sempre il marketing propriamente detto, cioè promozione e distribuzione: non serve a nulla inserire un titolo nelle varie catene distributive (Amazon, ecc.), perché senza un’adeguata promozione il libro diventa invisibile nel mare magnum dell’offerta.
YCP in pratica non la fa, perché non è un editore che investe sul prodotto scelto, ma un’azienda che offre il servizio cosiddetto di “print on demand”: e quindi – per quanti consigli ed esempi possa offrire all’utente - quest’improba fatica ricade tutta sulle spalle dell’autore, soprattutto a livello economico; che per portarla avanti in maniera soddisfacente, deve avere nel campo un’esperienza professionale vera e propria.
Io posso permettermi di farne senza, perché essendo il mio un prodotto assolutamente di nicchia: continuo a basarmi sul mio indirizzario, sulle occasioni pubbliche e sul passaparola sia “fisico” che di rete; tanto mi basta, ma se dovessi promuovere un romanzo, dovrei affidarmi a un professionista e nel caso sceglierei un vero pubblicitario esterno a YCP; con le relative spese; che, ripeto, finché parliamo di poesia non ha senso a mio avviso affrontare.
S.P. - Come mai hai deciso di non affidarti a nessun professionista dell’editoria, come un editor? In che modo hai avuto la possibilità di sviluppare le competenze necessarie per seguire l’intero processo editoriale in autonomia?
A.R. - Non essendo mai andato a scuola in vita mia, mi son creato da solo un processo di apprendimento e di autovalutazione, che ho applicato anche alla scrittura con annessi e connessi.
Ho potuto così apprendere – informandomi con le persone giuste, sfruttando le mie conoscenze in ambito visivo per le copertine, studiando e leggendo – le competenze necessarie.
Ancora una volta, però, quanto ho scritto è valido solo per la poesia: per la prosa le persone che eseguirono l’editing sui due romanzi mi furono assegnate (gratuitamente, ovvio) dalle case editrici. Se avessi scelto la strada dell’autopubblicazione, anche per l’editing – passaggio fondamentale e ineludibile in prosa – avrei dovuto pagare un professionista.
S.P. - Come reputi la distribuzione del tuo libro? Soddisfacente? Ho letto che se ne è occupata la piattaforma. Ti è mai capitato di verificare in libreria se i tuoi testi fossero disponibili? Sei presente nelle biblioteche, in librerie locali, indipendenti ecc?
A.R. – Sono certo che i testi autopubblicati sono reperibili nelle librerie, infatti qualche copia ne è stata venduta anche “fisicamente”. Torniamo però al discorso di prima: inserire un titolo in un qualsiasi database e lasciarlo lì, significa ben poco.
Riguardo ad altri siti “3D” le biblioteche ufficiali mi ignorano: sia perché per partito preso (e per intuibili motivi…) non trattano le autopubblicazioni, a meno che non siano di autori locali; e sia perché gli argomenti che tratto non si appiattiscono sui desiderata di chi ha in mano la Cultura in Italia, né seguono i gusti del pubblico: e bisogna ammettere che anche molte biblioteche, specie quelle dei piccoli Comuni, seguono questa strada, anziché interessarsi ai testi di qualità.
Tornando alle librerie, se non altro almeno una libreria, o cartolibreria di quelle esistenti nei paesi in cui ho abitato e abito, ha sempre tenuto copia delle mie raccolte autopubblicate; con relative – per quanto poco più che simboliche – vendite.
S.P. - Reputi l’esperienza del self publishing positiva. Come mai? È una scelta che rifaresti, tornassi indietro?
A.R. – Assolutamente. Anche perché l’alternativa sarebbe tenere i propri testi nel cassetto e lamentarsi sui social delle storture del mercato. E quindi sì, è una scelta che rifarei; e che raccomando, una volta che si ha fiducia delle qualità del proprio lavoro e non si riescono a trovare sbocchi soddisfacenti nell’editoria tradizionale.
S.P. - Puoi dirmi qualche parola in più sulla promozione? Hai organizzato incontri con i lettori, adv amazon, dirette sui social o altro? Oltre a Instagram hai attivato altri canali, come Youtube, Facebook, Telegram?
A.R. – Premetto che le mie scelte al riguardo sono state caratterizzate – immagino – oltre che dalla sicurezza di dover rivolgermi a un pubblico di nicchia, attento più alla sostanza che alla superficiale apparenza, anche da questioni anagrafiche: in altre parole essere vicino ai settanta, fa sì che io abbia una mentalità consolidata, che non dà alle attività in rete quell’importanza che dà loro, invece, un ventenne o un trentenne.
Detto questo e specificato che gli unici incontri online furono organizzati dalle Edizioni Saecula per il mio primo romanzo, come ho spiegato ho sempre fatto conto massimamente delle relazioni stabilite di persona o, al limite, epistolarmente anche con le e-m.
Beninteso, ho una pagina FB (sulla quale do regolare resoconto delle mie attività e pubblico gli inediti che di volta in volta scrivo) e un sito Internet, nel quale trova posto tutta la mia attività artistica dagli Anni Settanta del secolo scorso e nei vari settori toccati: ma non è che dia loro un’importanza primaria; e quanto ad altre più nuove forme (app ecc.) non me ne sono mai interessato. Al momento non utilizzo nemmeno Telegram: la formula della sua fruizione è più ristretta di quella di FaceBook, anche se pure lì sono inscritto in un paio di gruppi, nei quali pubblicizzo la mia attività.
Questo il primo commento che ho ricevuto (da Leonello Rabatti) per la mia nuova raccolta “Verba”:
Ho ricevuto e letto il tuo libro, una meditazione sull'uso più generale del linguaggio, come l'hai definito nel testo introduttivo. Si tratta, in effetti, di un'opera insolita rispetto alla tua precedente scrittura, quasi sempre legata ad elementi di impegno politico e comunque piuttosto agganciata alla viva e bruciante concretezza del reale. In “Verba” mi pare emerga l'inclinazione meta letteraria, riflessiva e autoriflessiva, veicolate con i tuoi ormai affinati, interessanti strumenti linguistici e neologistici, sui quali ho già tentato di esprimere le mie impressioni nei nostri precedenti contatti.
Da molto tempo, ormai, non scrivo in modo regolare e le mie ultime vicende mi hanno imposto di concentrare le mie energie non freschissime verso la vita personale pratica. Tuttavia da molto tempo mi chiedo quale possa essere il senso della scrittura e della comunicazione verbale in quest'epoca satura di tutto, ma non dell'autentico elemento etico e spirituale.
Neil rari momenti in cui mi sono accinto a scrivere qualcosa, non ho potuto fare a meno di confrontarmi con l'esigenza di pormi "al di fuori del linguaggio", ed al contempo constatare che le strutture comunicative sono imprescindibili; e dunque: come veicolare la propria necessità espressiva in una contemporaneità in cui il sapere, frammentato e settoriale, ha esperito qualsiasi forma e modalità? Sembra superata, o è ancora valida, la ricerca di uno "stile", di un'originalità che scaturisca dalla componente "organica" dello scrivente?
Parlare della difficoltà di scrivere, mentre si esperisce il tentativo scrittorio: la strada meta-letteraria talvolta mi pare ineluttabile. In questo senso è piuttosto emblematica la tua “Sforzo di parola”, che ben restituisce quest’ansia scrittoria, nel riferirsi ad un’immaginaria e insensata divinità che possa aiutare a cercare “un senso alle parole”, nella ricerca di “…un sogno che sia davvero vero… / un suono finalmente / a scrostarvi ‘sto vento che m’avvolge / e frena quest’andare ancora figurato / di sillabe impacciate.”
Ecco, direi che qui, e in varie altre parti dei tuoi componimenti, è ben espressa questa forte difficoltà, questo disagio che proviamo nel tentativo di scrivere, di scrivere poeticamente, ma anche in qualsiasi altra forma.
Due recensioni di “Verba”, l’ultima raccolta autopubblicata; la prima è di Paolo Lamberti:
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“Dopo decenni dedicati alla letteratura ed alla parola, Rizzi con questa raccolta decide di intervenire direttamente sul materiale linguistico. Il programma è delineato con chiarezza nell’introduzione: «provo a misurarmi con l’uso più generale del linguaggio, sul suo inevitabile imbastardimento e sulla superiorità di quelli che vengono liquidati come “dialetti” di fronte alle lingue “franche” […] inutile tentativo di raggiungere la totale convergenza di significato e significante».
Vasto programma, avrebbe commentato De Gaulle; la lancia spezzata a favore dei dialetti sembra abbastanza scontata, in una poesia italiana che ormai da un secolo li ha sdoganati quasi a farne il mainstream; invece la convergenza tra significato e significante è il cuore della poesia, purché non sia totale, come ben sapeva Leopardi nella sua nota distinzione tra parola, poetica e indefinita, e termine, preciso ed arido.
Quasi all’inizio la poesia Dichiarazione d’intenti, una delle prime tre, le uniche con titolo, rivela la volontà di diventare finalmente lingua e solo lingua, con parole che si fanno forma, vibrazione di materia, e si oppongono alla neolingua di bruti. La parola appare come ostia consacrata da masticarla ad alta voce, rivolta ad un tu che si mostra amoroso. La natura stessa si fa parola muta, sia essa la linea bianca della neve, la carcassa di animale, il suono di un uccello.
Anzi, i suoni umani, vocali e consonanti vanno cancellate a favore della voce delle serpi in amore; le vocali sono parti molli che se n’evaporano fino ad assentarsi, le consonanti sono dritte costole e vertebre di fossili. Si coglie l’intenzione di dare materialità al suono e al linguaggio, riportato al tocco di un dio dentro a noi. La materialità si coglie nella ricerca di una forma fatta di suoni scanditi, di allitterazioni che prediligono i toni rigidi, di sintassi spezzata, e di spazi di silenzio. Il linguaggio e la vita quindi diventano interscambiabili, la materia a farsi parola e la parola a farsi materia: i verbi quasi autonome creature.”
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E poi c’è quella di Antonio Spagnuolo, che da molti anni è attento alla mia scrittura:
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“Ho affrontato la lettura di questo volumetto prendendo di petto il vertiginoso scivolare delle pagine, per un irrefrenabile desiderio di entrare nell’input dell’autore: che con le parole (Verba) sembra voler giocare all’infinito nella luce dei significati e dei significanti, che molto spesso traggono in abbaglio il disattento fruitore.
Stordito dal fluire ininterrotto di incisivi fraseggi, atti a dimostrare quanto debole possa essere la parola e quanto fortemente invece ella possa incidere nel dettato ricercato di un poeta, il cui elaborare il pensiero riesca a determinare equilibrati stupori ed equilibrate progettazioni, le mie congetture hanno avuto la sorpresa della ideazione e programmazione di un messaggio, che prema sull’orecchio ed imprima la sorpresa del dubbio in equilibrio instabile con la persuasione.
Alberto Rizzi in apertura dichiara: “Avevo iniziato non molto tempo fa una raccolta nella quale volevo trattare appunto della sonorità e della musicalità della parola poetica, che vive di vita propria costruendo una tela al limite della illeggibilità, ma che mantiene il proprio significato; e tale lavoro avrebbe dovuto fare da pendant a questo. Ma proprio nei giorni in cui sto limando per l’ultima volta questa raccolta, mi sono reso conto che sarebbe venuto fuori un testo senza cuore e senza anima: proprio il limite che imputo a certi lavori sperimentali, soprattutto fra quelli partoriti dalle Avanguardie dello scorso secolo, che reputo siano divenuti un esercizio tecnico e/ o stilistico fine a se stesso.” Ed ecco che ci incontriamo con “la parola desueta/ (se non per l’afflato che potrebbe il vento) / da rinvangare piano/ quàsifìglia ad altra terra/ riportare nonvìsta e quàsicamuffàta/ a nuova superficie dove poter/ ma viva/ bengiacére…” o “Su un orizzonte di normalità/ bello è vedere un auto nel suo andare/ carco suodórso d’un mobile di sfalcio/ con laminati e formica che/ vecchiati/ a stento rimandano un brillio.”
Redigere una particolare pigmentazione del fraseggio è un’impresa di notevole impegno che include esigenze particolari sia per la struttura del testo sia per la risultanza che possa parlare di proiezioni distraenti o attraenti, in una vibrante sequenza di “incisivi” ben disposti sulla pagina eccezionalmente solcata.”
C'ERA UNA VOLTA LUTHER BLISSET; E C'ERA ANCHE ALBERTO RIZZI
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Quest'anno sono trent'anni (bestia, come sono vecchio...) da che i Blisset "bucarono lo schermo" con quella che passò alla storia come "La Beffa a Chi l'ha visto?".
Nell'occasione, "Il Fatto Quotidiano" ha avuto la bella idea di intervistare qualcuno al riguardo: e i Wu Ming - attuali prosecutori di quel collettivo - gli indicarono me come soggetto migliore, dato che l'ideatore di quell'operazione fu il sottoscritto.
Intervista ben realizzata (grazie, Valentina Stella) e come logico non pubblicata dal quotidiano: perché sono io, che quindi non faccio vendere un cazzo? Perché si aspettavano chissà quali dietrologie, chissà quali complottismi e c'è invece solo una sana disanima degli eventi, che quindi non fa vendere? Perché sono italiani, cioè perfetti rappresentanti di un popolo in maggioranza di merda, a qualunque cosa si applichi? Ai posteri l'ardua sentenza...
Per rispetto verso il lavoro altrui e perché Luther Blisset è un progetto che ancora adesso attrae e viene studiato, come logico devo rimediare io: l'intervista integrale è qui sotto ed è stata pubblicata anche sulla mia pagina FB.
Buona lettura...
V.S. - Quest’anno si festeggiano i trent’anni dalla burla mediatica che hai ideato insieme agli aderenti del Luther Blissett Project. Chi è, quindi, Harry Kipper?
A.R. - All’inizio ce n’erano addirittura due, di Kipper: erano dei performer inglesi dentro quel giro artistico molto off e seguitissimo negli anni ‘80 e ‘90. In seguito Harry Kipper è diventato semplicemente un nome, né più né meno come Luther Blissett. Com’è noto, lo scippammo ad un calciatore perché ci piaceva; è diventato questo pseudonimo collettivo, questa creatura, una specie di Frankenstein artistico-mediatico conosciuto anche adesso che si è poi evoluto nei Wu Ming: qui è transitato lo zoccolo duro di Blissett che continua alla grande con molte manifestazioni, e non solo di scrittura.
V.S. - Prima nacque l’individuo/non individuo Harry Kipper, e solo in un secondo momento l’idea dello scherzo mediatico. Perché lo faceste?
A.R. - La burla nacque qui in Italia, ideata da me e portata avanti assieme ai Blissett di Bologna, Piermario Ciani e ad altre persone utilizzando tutto quello che serviva per renderla credibile, compreso il nome di Kipper.
Il nostro ragionamento fu di ordine molto pratico: volevamo dare visibilità a livello nazionale all’intero progetto del multiple name Luther Blissett, e per questo ci serviva una sorta di detonatore che lo facesse arrivare agli onori della cronaca. Al pari di tante operazioni del genere – almeno due in quegli anni, sempre in ambito artistico: la faccenda delle teste di Modigliani e quello che viene denominato “il complotto di Tirana” –, anche noi volevamo portare all’attenzione della gente la facilità con cui è possibile creare una bufala mediatica dal nulla e a cui tutti possono credere solo perché amplificata dai mezzi d’informazione.
In tal senso la madre di tutte queste operazioni – paragonabile per importanza al “Il signore degli anelli” per il fantasy – fu il famoso sceneggiato radiofonico “Guerra dei Mondi” trasmesso nel 1938 da Orson Welles e tratto dall'omonimo romanzo di fantascienza di Herbert G. Wells.
La differenza sostanziale con gli altri progetti era la nostra urgenza di andare sotto i riflettori: non ci limitammo solamente alla burla goliardica e ai granchi madornali a cui la critica d’arte contemporanea può abboccare quando una notizia è ben confezionata.
V.S. - Come sono entrati in contatto con voi gli operatori di “Chi l’ha visto?” e come avete fabbricato il materiale per rendere veritiera l’esistenza di Kipper?
A.R. - Mandammo un comunicato all’ANSA su questo artista disperso nel territorio dell’ex Jugoslavia, mentre faceva una performance in bicicletta lungo l’Europa per scrivere la parola “ART”: questo, girato poi alla trasmissione, riportava il numero di telefono di Radio Kappa Centrale di Bologna, cioè il quartier centrale radiofonico dei Blissett. Una volta ricontattati abbiamo cominciato a costruire la burla con tutto il materiale che poteva servire per un discorso di vedo/non vedo: soprattutto le false notizie su questo viaggio di Blissett per l’Europa e le “testimonianze” legate ai progetti di Arte Postale.
Erano tutte informazioni fasulle, ma credibili: è così che si costruisce qualsiasi manipolazione. Andò tutto bene, finché poi in Inghilterra ci fu una questione con i documenti per cui a Roma subodorarono il trucco e fermarono tutto, ragione per cui all’ultimo momento il servizio non andò in onda. Al di là dell’equivoco – che non so se non fosse stato previsto adeguatamente da chi era in Inghilterra, o avevamo noi sottovalutato il rischio – la faccenda era assolutamente credibile.
V.S. - Esistono due versioni su come “Chi l’ha visto?” abbia scoperto il vostro piano.
La prima sostiene che un dipendente della redazione vivesse proprio a Udine e, sentendo di questa leggenda urbana che aveva nel frattempo preso vita propria rispetto agli intenti iniziali del LBP, svelò Kipper quale progetto costruito a tavolino. L’altra ricorda ciò che dici: la RAI chiamò le autorità inglesi per accertarsi della sua (in)esistenza all’anagrafe.
A.R. - La seconda delle due è quello che successe veramente, dato che l’inghippo successe in Inghilterra. L’una però non esclude l’altra: che poi fosse arrivata una voce da Udine o da qualsiasi altra parte del mondo sul progetto non è nemmeno da escludersi.
V.S. - Come nacque la collaborazione con Londra?
A.R. - Questo riguarda i rapporti che la costola bolognese aveva per conto proprio.
Io coinvolsi Piermario Ciani, una persona che conobbi nell’ambito dell’Arte Postale e che già si era interessato a questo progetto: una mente molto lucida, la sua.
Allo stesso modo i bolognesi – quelli che ora sono i Wu Ming – avevano contatti all’estero che io non avevo, per esempio con l’artista in carne ed ossa Stewart Home che fu incaricato di far correre la troupe in giro per Londra e dintorni.
V.S. - Il materiale che mostraste alle telecamere per rendere credibile l’esistenza di Kipper fu creato per l’occasione, o riciclaste dei vostri lavori tra i membri di LB per l’occasione?
A.R. - Tutt’e due. Ad esempio, la famosa fotografia di LB è un collage di quattro foto che uno dei membri bolognesi del progetto credo abbia ricavato anche da foto dei suoi parenti. Quando io portai la troupe a Udine utilizzai delle mie opere di Arte Postale, per rendere la storia ed il personaggio più credibili, oltre ad affermare di ricordare scambi epistolari mai avvenuti su quei lavori e cose del genere. Riutilizzammo molte cose, mentre alcune furono create di sana pianta per l’occasione.
V.S. - Come eravate coordinati tra i due Paesi?
A.R. - Il gruppo che sovrintendeva era quello dei LB a Bologna, poi le diramazioni sia in Italia che in Gran Bretagna portavano avanti il progetto per conto proprio nel resto del territorio. Io ricevetti la troupe presso l’emittente “Radio Onde Furlane” di Udine, dove le mostrai i rapporti di Blissett con l’Arte Postale. Fu un’operazione a sé, come lo erano per esempio quelle della “Amorevole Compagnia Pneumatica” in campo teatrale e i cosiddetti “attacchi
psichici” che si facevano per Bologna, anche se finalizzata a dare credibilità a tutto l’impianto.
V.S. - Si è accennato all’esistenza di una cassetta che Kipper avrebbe lasciato a casa di Ciani prima di sparire.
A.R. - È solo una delle tante voci fatte per rafforzare il realismo della burla.
V.S. - È stata creata per alludere a false ipotesi sulla ragione della scomparsa di Kipper, così come successe per altre performance fatte da Blisset, come fu nel caso della notizia della scimmia pittrice durante la Biennale di Venezia?
A.R. - Mi ricordo bene della scimmia Luta, era il ‘95: in quell’occasione però non partecipai perché ero in un periodo di pausa dalla creatività, uscii anche dall’Arte Postale. Comunque sì, tutto quello che serviva ad intorbidire le acque creando realismo ci tornava utile, sempre cercando di non superare i limiti della credibilità. Far vedere un intreccio di lavori tra Italia ed Inghilterra con questi artisti inglesi – che in effetti era vero, con l'Arte Postale si lavora in tutto il mondo – era mostrare qualcosa di assolutamente credibile e realistico. Chi avrebbe mai verificato l’esistenza di quella cassetta? Però Kipper esisteva, il fatto che dei pazzoidi vadano in giro per l’Europa a fare performance, magari pure in zone di guerra, anche questo è vero pure oggi… Quindi la cosa stava in piedi.
V.S. - C’è stato anche il caso di Darko Maver in quegli anni, un altro artista inesistente.
A.R. - Ad un certo punto non ho più seguito questo genere di operazioni. Ora sono perplesso sulla loro utilità: è giusto mettere il dito nella piaga di certe situazioni e sistemi, ma io vedo che in termini di ricaduta sulla gente non hanno alcun risultato. Non la ebbe nemmeno l'operazione di Orson Welles, con tutto che eravamo, quasi un secolo fa, con una ben minore copertura mediatica, invasività e manipolazione della gente. Ancora una volta nessuno si chiede se ciò che passa il telegiornale sia vero oppure no.
Abbiamo avuto degli esempi molto espliciti anche ultimamente, a cominciare con le immagini di videogame spacciati dai tg per raid sul territorio ucraino: nessuno si è chiesto se le cose stiano veramente come dicono. Intendiamoci, mettere in crisi e portare l’attenzione su queste storture va sempre bene; sono solo molto pessimista riguardo una possibile ricaduta sulla maggioranza della gente. I libri di vera informazione vengono letti soltanto da quelli che hanno già una certa sensibilità o una propensione a ragionare sui problemi in modo autonomo, ma per la maggioranza passano sempre addosso come acqua fresca.
V.S. - Nel saggio “Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0”, il LBP affermava che la gente comune sarebbe già consapevole della falsità intrinseca al sistema dell’informazione: era solo questione di validarne il pensiero.
A.R. - È un punto di vista. Anche se fosse vero, il problema è che il risultato non cambia: la maggioranza continua bellamente a credere a tutto quello che le si racconta. Il discorso è molto semplice ed è, diciamo, “matematico”: perché c’è poco da fare, la qualità è faccenda minoritaria, è legge di natura e vale anche per l’uso della capacità critica che ha il singolo. Cerchiamo pure di svegliarlo ogni volta che si può: perso per perso potrebbero svegliarsi all’ultimo momento o forse non si sveglieranno mai, ma nel frattempo tentiamo di rafforzarli.
Personalmente sono passato dal credere che fosse possibile risvegliare almeno una porzione significativa di persone al ritenere che sia un percorso personale; e sì, facciamo vedere tutto quello che si vuole, ma rimarrà sempre così.
Si potrebbe anche dare ragione alla teoria iniziale di Blissett, cioè di continuare a volerle rafforzare finché la cosa non scoppia. È semplicemente un ragionamento di strategie, di costo-efficacia. Io credo che ormai dire “svegliatevi, state attenti, guardate che…” non serva più: per carità, farlo se si ha voglia e tempo va sempre bene, ma è inutile aspettarsi dei risultati. Questo tipo di operazione farà breccia su un paio di persone, ma non cambierà la massa.
In natura le cose non funzionano democraticamente o per maggioranza, ma per massa critica. Ad un certo punto un tot di energia – che non corrisponde al 51% o più – riesce a smuovere le cose. Cosa significa questo? Che se un 25-30% della popolazione di un Paese fosse monoliticamente deciso e convinto a fare qualcosa, potrebbe farla e cambierebbe le
cose.
Arrivare a questo livello di coesione parte da una presa di coscienza personale del singolo. Ciascuno dovrebbe capirlo e cominciare a fare qualcosa per arrivare ad essere massa critica nella realtà che vivono, a partire dal proprio piccolo a partire dal proprio condominio, quartiere, via, eccetera.
È questo il punto e bisogna dire la verità: che abbiamo anche il tempo contro, perché si fa molto prima a distruggere che a costruire. E chi governa lo sa molto bene. La logica sarebbe ragionare insieme come comunità per trovare soluzioni ai problemi che ci affliggono: arrivare a questo livello è la vera difficoltà e il vero salto di qualità.
V.S. - È trasformare una massa acritica in una in azione?
A.R. - Sì, ma attenzione a quello che ho detto prima: questa “massa”, democraticamente parlando, non avrà mai la maggioranza. A questo punto lasciamo stare il concetto di massa, almeno per come è veicolato dalle ideologie nate dall’Illuminismo: alla fine chi vuole fare, fa. Per quanto i social siano una iattura anche lì, leggendo tra le righe, si riesce a capire qualcosa: ci sono tutte le possibilità con Internet e i giornali, bene o male basta incrociare le notizie, glielo si dice in tutti i modi.
V.S. - Un’immagine simbolica di questa situazione potrebbe essere quella di Zarathustra che, stancatosi di tentare a svegliare la coscienza comune, lanterna alla mano durante il giorno, diventa un trickster: con la consapevolezza di non riuscire a rendere consapevole chi lo circonda, agisce come potenza e forza di cambiamento per il puro potere di farlo.
A.R. - Esatto, anche se bisogna stare attenti a certe definizioni: “agire per il puro potere di farlo” porta di solito ad esiti esiziali, visto che parliamo di operare nel sociale. A ragionare in questo modo, si arriva dritti all’hybris e abbiamo ottimi esempi di cosa succede a perdere il proprio equilibrio di giudizio in questo modo. Dopotutto lo stato di hybris è quello in cui si
trovano i governanti attuali e sappiamo cosa stiamo rischiando.
Adesso il salto di qualità è quello di riuscire ad agire in gruppo. Quindi: io sono qua e questa è la mia soluzione ad un problema, ti interessa? Parliamone, magari ne hai una migliore. Non ti interessa? Beh, vai per la tua strada, continua a votare, vai alle manifestazioni dei pacifisti per il riarmo, fai quello che vuoi.
V.S. - In quegli anni, pur collaborando al LBP, hai comunque mantenuto la tua identità e proseguito separatamente ed in autonomia con le tue opere poetiche. Come vedi la convivenza di questi due mondi in te?
A.R. - Da una parte a me interessava tutto ciò che era collettivo, cioè le modalità con cui si interagiva nell’Arte Postale sia fisicamente che a distanza; inoltre, il discorso del multiple name toccava un discorso molto rognoso e chiacchierato anche oggi ovvero quello dei diritti d’autore. Dare la possibilità a tutti di poter partecipare ad un’operazione collettiva senza copyright e i cui prodotti rimangono disponibili sempre e comunque gratuitamente era una provocazione molto intrigante; quindi dissi: “mi piace quello che fate, mi va di darvi una mano, poi io rimango io”. Non fui certo l’unico: vale pure per Piermario Ciani, che fu sempre Luther Blissett e anche Piermario Ciani.
A me interessava sia questo, sia lo sperimentare un’interazione più di persona, che non con l’Arte Postale che prevede lavori collettivi, ma a distanza: ci si scambiava un'opera per posta, la si interventava e la si rimandava in giro. Con LB si lavorava quasi sempre di persona e questo per me era molto coinvolgente.
Ripeto: c’era questo discorso del superamento del copyright che trovo sbagliato, per come è concepito ora: bisognerebbe arrivare ad un compromesso, per cui i diritti d’autore siano sfruttabili solo dall’autore stesso e terminano con la sua morte. Non è che uno ne eredita i diritti, l’opera diventa pubblica e basta: quindi una sorta di compromesso tra l’arte “di tutti” e il ritorno economico per ripagare l’autore della fatica del suo lavoro. Anche nell'Arte Postale non c’è copyright, però questo modo interagire coi Blissett mi sembrava un passo avanti.
Ora come ora, tutto è fuori etica perché tutto è in mano al mercato: il nostro discorso di avere un nome in cui chiunque potesse riconoscersi, producendo quello che si voleva e facendolo circolare liberamente, era comunque un passo avanti; forse maggiore – dal mio punto di vista – rispetto all’Arte Postale, nella quale magari si usa uno pseudonimo, ma l’individualità rimane.
V.S. - Ti sei prestato al progetto senza l’illusione di iniziare a perseguirne l’ideologia comune in maniera dogmatica.
A.R. - Sì: “sono io, sono qua, vi do una mano, sono questa entità multipla; però per certe cose continuo a essere io”. In quegli anni l’autore dei miei libri era Alberto Rizzi, non Luther Blisset: nelle note biografiche era menzionato chiaramente che partecipavo al progetto, ma il lavoro poetico era una cosa esclusivamente mia.
Non c’è copyright neanche sui miei lavori, però ci tengo che venga messo il mio nome: anche questo è un modo per riflettere sulla struttura di un sistema, che alla fin fine non serve a far girare le idee e non premia veramente chi merita nell’ambito della creatività. Anche questo modo di agire vuol essere una provocazione.
V.S. - Gli altri componenti del LBP – ora confluiti in Wu Ming – ti hanno citato in diversi loro scritti, tra cui il più famoso “Q”: qual è la ragione, secondo te, e quale rapporto intercorre tra voi tuttora?
A.R. - Innanzitutto un rapporto di rispetto reciproco, visto che siamo ancora in contatto. La “burla” alla RAI, poi, fu un momento fondamentale nella loro carriera e nella “vita” di Blisset. “Q” avrebbe avuto comunque un gran successo perché è uno splendido romanzo, rimane una delle cose migliori cose che hanno scritto se non la migliore in assoluto; ma sai, “ah Luther Blisset! Quello che ha preso in giro la RAI!” fa parlare e porta pubblicità.
Questa mia trovata è stata il detonatore per far diventare il nome noto al grande pubblico, trainando così le vendite dei primi libri. Poi non ebbero più bisogno di certi espedienti, come non ne hanno certo bisogno come Wu Ming: però all’epoca fu un punto di svolta, quindi c’è rispetto reciproco, perché siamo stati tutti quanti molto coerenti nelle posizioni che abbiamo preso.
Io sono un poeta prestato alla prosa, nel senso che ho scritto due romanzi, ma quasi me ne vergogno: nel primo romanzo mi presi comunque la soddisfazione di citare due di loro, per render loro la pariglia. Se invece mi chiedi come me la cavo a scrivere poesie ti rispondo “guarda, se dieci anni fa mi hanno antologizzato in Cina, il mio mestiere si vede che lo so fare”. Questo per dimostrarti il rapporto di cameratismo che intercorre tra noi: ognuno sta facendo la propria carriera e va avanti per la sua strada, poi ogni tanto ci si sente, e – se capita – volentieri ci si dà una mano.
V.S. - Credi che qualcuno abbia saputo cogliere l’eredità dell’esperienza blissettiana?
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A.R. - Non saprei. In Italia non credo da quello che vedo in giro, ma cosa ne sappiamo nel resto del mondo? Il suo nome era diventato una sorta di frullatore in cui entrava di tutto, anche episodi singoli accaduti un po’ ovunque nel mondo: ci furono dei Blissett in Australia, cioè agli antipodi… Cosa succede di paragonabile a Blissett e Wu Ming all’estero? Ormai sono nomi conosciuti, qualcuno potrebbe scoprire del loro esordio, prenderne esempio e creare qualcosa di simile pur con intenti completamente diversi.
Purtroppo c’è questo equivoco: crediamo di sapere tutto, perché convinti che la rete ci dice tutto, mentre in verità sappiamo ancora di meno. La marea di dati è così vasta che non si può essere certi di non perdersi qualcosa. Potrebbero esserci dieci progetti a nome multiplo paragonabili a LB attivi in questo momento in diversi paesi del globo e noi non saperlo minimamente. magari se vai lì a dir loro “sai che 30 anni fa in Italia hanno fatto la stessa roba?” ti rispondono “ma va, davvero?”.
Credo che in Italia ormai Blissett sia storia. L’estero lo conosco per via indiretta, però mi sembra che ci sia più attenzione, rispetto e circolazione di idee in campo artistico e culturale: un nome e un’esperienza paiono venire a galla più spesso. Avevo parecchi contatti anche in Germania, con l’Arte Postale: potrebbe anche darsi che senza saperlo, qualcuno di quelli che conoscevano me hanno fatto girare discorsi su questa esperienza, senza che io ne sappia nulla. Sarà l’effetto dell’erba del vicino o che 50 anni di carriera artistica mi hanno reso molto critico e negativo sulla realtà italiana.
V.S. - Il paradosso tutto nostrano è che il Belpaese si vanta di detenere l’arte migliore del mondo – affermazione discutibile, perché si può effettivamente dire che esista un’arte migliore di un’altra? – senza però curarsi degli artisti viventi che hanno ancora molto da dire.
A.R. - È un sistema che perpetua se stesso sia nel bene che nel male: se è basato sull’ignoranza ed è fuori etica non si può pretendere che valorizzi la qualità. La maggior parte della gente è così stupida da affermare che Leonardo da Vinci, Masaccio e Petrarca sì erano artisti, non come quelli di adesso. Non capiscono come questi fossero l’avanguardia della loro contemporaneità, Masaccio rappresentò l’innovazione artistica del suo tempo così come lo fu Picasso negli anni Dieci del Novecento e come lo è adesso Maurizio Cattelan. Si tratta di relativizzare la propria epoca in base a quello che è la propria era.
V.S. - Il vostro progetto di sabotaggio mediatico fu sventato poco prima che raggiungesse il culmine e per questo non venne mai trasmessa. Non siete mai stati curiosi di vedere i materiali raccolti dalla troupe di “Chi l’ha visto?”? Ne avete mai richiesto la visione?
A.R. - Io sì, sarei curioso; gli altri non lo so. La realtà è che non sappiamo nemmeno se ci sia stato un prodotto finale: delle riprese e dei nastri ci sono stati, però non sappiamo nemmeno se li abbiano tenuti e non c’è mai venuta la curiosità di chiedere notizie in giro. Nessuno ci ha mai contattati, immagino che fossero molto incavolati: forse ora, passati tanti anni, i rapporti sarebbero diversi.
L'operazione riuscì, ci fu buona esposizione mediatica e in effetti si parlò, tra gli addetti ai lavori, della manipolabilità delle notizie e della gente: fu comunque un successo, quindi a quel punto semplicemente proseguimmo. Non mi risulta che quelli di Bologna abbiano chiesto di vedere o sapere qualcosa di quanto raccolto dalla RAI.
V.S. - Dopo 30 anni non avrebbe nulla da perdere nel rendere disponibile il prodotto finito.
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A.R. - Chiaro. Poi bisogna vedere come la presero allora, se hanno detto “mamma mia butta via tutto e finiamola qui”, o se hanno comunque conservato il materiale raccolto: dopodiché bisognerebbe sentire i responsabili del programma dell’epoca a cominciare da Fiore De Rienzo, il povero regista che intortammo e facemmo correre come un cavallo per mezza Europa; ma che purtroppo è morto.
Se infine saltasse fuori una tavola rotonda tra lui, me e uno dei Blissett per parlare dei tempi che furono va bene, ma ormai è nel passato. Per noi fu l’occasione per cercare di smuovere qualcosa nella testa della gente, come sempre con qualsiasi forma d’arte in maniera più o meno provocatoria: qualsiasi operazione artistica serve proprio a questo. Tutte le cose fatte da Blissett, a partire dagli attacchi psichici fino a questa, alle performance e agli interventi teatrali della Pneumatica erano in questo senso.
V.S. - Mi hai spiegato chi fossi prima e durante l’esperienza LB. Chi sei adesso, dopo 50 anni di carriera alle spalle in ambito artistico?
A.R. - Ho avuto una carriera in tantissimi ambiti e per una serie di circostanze sono prima di tutto uno scrittore di poesie. Ma sempre pronto a riprendere le attività fatte in precedenza, negli altri campi, dai cortometraggi alle performance, all’astrattismo, al teatro; e comunque continuo per la mia strada, senza cambiare il mio modus operandi, standomene alla larga dalle Istituzioni: che giustamente mi ignorano.
Ho avuto delle belle soddisfazioni con la poesia, non solo in Italia ma anche all’estero. D’altro canto fu anche una scelta obbligata: scrivo poesia, perché è il campo artistico nel quale riesco a raggiungere il maggior numero possibile di persone, con il minimo dispendio di soldi ed energie. Con l’arte astratta questo non sarebbe possibile, non con la situazione che c’è in Italia ad esempio.
Se ti chiedono chi è Alberto Rizzi, rispondi che è soprattutto un poeta, ma posso essere anche molto altro. Sono molto Blissett in questo, posso prendere in mano diverse attività e ricavarci qualcosa: dopo mezzo secolo di lavoro ci si riesce ad autovalutare ed essere consapevoli del fatto che, per esempio, la musica è meglio che me la scordi; ma che probabilmente nel campo della scultura, anche se non ho mai fatto nulla, qualche idea buona potrei avercela.
È un discorso di circostanze. Fino a pochi anni fa c’era una persona a Ferrara che mi portava in palmo di mano e che mi fece fare tante mostre e presentazioni di libri, ma purtroppo ora è morta. Sono i casi della vita. Attualmente seguo la mia attività che è al 95% scrittura il cui 95% è scrittura poetica. Se ci saranno altre occasioni, le coglierò.
V.S. - A cosa stai lavorando al momento?
A.R. - Ho alcune raccolte di poesie in vari stadi di lavorazione, ce n’è una di cui non dico niente, per scaramanzia, in quanto potrei perfino aver trovato un editore serio; e una che sarà pronta l’anno prossimo, e poi alcune altre ancora incomplete. Ho anche una raccolta di racconti di stampo “goth” anch’essa in cerca di editori. Tutti gli altri progetti possibili sono “in sonno”.